Questa volta trovo l'irresistibile impulso a ripetermi. Riprendo cose già scritte e ne trascuro altre, inedite. Mi va così. Ma mi fermo molto indietro nel tempo. Con qualche domanda retorica iniziale. Parto dai soliti platani?Dai profumi di Grasse? Che devo aver odorato in loco quando avevo cinque anni? A dire il vero, non riesco a ricordarli: ho più nella memoria, anzi, quasi nel naso, le fragranze delle vecchie distillerie di Bordighera e del Prino di Imperia. Il cioccolato, allora. Quello nero, fondente, ottimo, dalla marca che non vado a declinare, anche se non c'é più. Si trovava solo nei negozi di là dalla frontiera. Fantastico per fare le castagnole, il dolce tipico di Ventimiglia. Almeno, lo usava la nostra vicina di casa di Nervia e castagnole così buone non ne ho più mangiate. Neanche adesso che la leccornia ha il marchio di origine comunale. Vatti a fidare dell'ufficialità! Certo che, a quei tempi, che tre tavolette o giù di lì facessero già contrabbando! Come le banane. Pure quelle piccole, del Senegal: mai più viste! Gite scolastiche e non. La Valle Roja nella parte francese. Fuori mano? Va bene, ma ditelo ai francesi, che te la segnalano già da Cannes. La vecchia ferrovia Ventimiglia-Cuneo ancora in disarmo: ponti crollati, binari interrotti, malconcia segnaletica d'anteguerra. La Valle delle Meraviglie per salire a Monte Bego. Il primo laghetto, Pic-nic. Filmino, se c'é ancora. Non pervenuto se riversato in dvd. E, dall'altra parte, verso il mare, l'Acquario di Monaco: sì, però, l'ho guardato bene tanti anni dopo. E Monaco é Costa Azzurra? Sì, mi pare si dica di sì. l Trofeo d'Augusto a La Turbie. Eze Village, il nido d'aquila de la Côte: giusto, ma che era tutto ricostruito l'ho capito già allora, da ragazzino. A Nizza, ancora, il monumento a Garibaldi. In quella piazza soprattutto la farinata. Socca, come la chiamano sul posto. Sospel. Bella cittadina! Se si accantona per un momento la memoria della feroce strage nazista. Sospel bella come la sottostante parte alta della Val Bevera. Il Festival del Cinema a Cannes, l'anno della contestazione generale. Città vuota, cartelloni sì. Perché mi sovviene quello di "Grazie, zia"? Lisa Gastoni callipigia nature? Subito dopo, due vendemmie a Les Arcs-sur-Argens, dipartimento del Var. Dal treno, l'incanto delle rocce rosse sul mare. Sul posto guidare, autorizzato, per divertimento il trattore solo usando la frizione: danni lievissimi alle vigne! Una domenica (nella banda c'erano una o due auto di ventimigliesi arrivati dopo e ripartiti prima) tutti o quasi a Saint-Tropez. La strada in collina non finiva mai. Saltare qualche intermezzo. Ancora due gite in pullman. Vence o Saint Paul de Vence? Sono vicine. Museo d'arte moderna. Tabula rasa. E non faccio ricerche su Internet o altrove. Sempre la mia testa nelle nuvole. Però, Grasse, sì. Ma per cosa? Per la fermata a a Nizza. Perché quel mercato dei fiori di "Caccia al ladro" c'era ancora. Dove Cary Grant finisce tra le ceste. E assaporare "54" dei Wu Ming che ricostruiscono quel parziale backstage.
adrianomaini
Non conosco la situazione attuale, ma alle colonnine che compaiono nella fotografia tanti anni fa corrispondeva in Cap Martin, nel comune - quasi di frontiera con l’Italia - francese di Roquebrune Cap Martin, un locale famoso, “I Fratelli della Costa” (in italiano!), anche perché situato di fronte ad un prestigioso ristorante, da cui derivava l’insegna, “Il Pirata” (Le Pirate), quest’ultimo frequentato, come spesso riportato dai soliti rotocalchi, anche da divi hollywoodiani, che non disdegnavano, come fu ad esempio per Sinatra, una visitina al pub su cui voglio attirare brevemente l’attenzione. Ad un Capodanno qualcuno insistette per fare tappa in quell’esercizio, asserendo che ci avrebbero accettato e non ci avrebbero spennato vivi. E così in effetti fu, solo che al sottoscritto, che allora nutriva una strana passione per l’Irish Coffee, venne risposto che quella "strana" bevanda là non era conosciuta: solo colpa dell'avventizio di turno? E del "Pirata" qualcuno di recente si è ricordato che era ai tempi gloriosi visitato anche da un fotografo di Bordighera alla ricerca di qualcosa di speciale: sono riuscito a risalire all'identità di questo operatore , ma penso proprio che i suoi acconci scatti siano finiti nell'Archivio Alinari di Firenze...
Da bambino, se ricordo bene, la nebbia l’ho vista solo a Milano o in viaggio in treno per Milano. Come in occasione della prima partita di calcio di Serie A che ho visto, nel 1959 (o ai primi del 1960), Inter-Sampdoria: c’è una fotografia che mi ritrae davanti al vecchio stadio di San Siro, ma in quel momento della giornata il fenomeno era alquanto mitigato.
Erano gli anni in cui mio padre, ferroviere, raccontava come si usassero nel suo lavoro i petardi da nebbia. Dislocati a debita distanza sui binari, con i loro scoppi, molto fragorosi, servivano a segnalare ad un treno che eventualmente fosse sopraggiunto che, non visibile o non ben visibile, causa, appunto, nebbia, ce n’era già uno fermo, per un segnale o, peggio, per avaria, sullo stesso binario o, credo, per sicurezza,anche su quello parallelo. Ricordo come erano fatti quegli ordigni, che talvolta mio padre, quando rientrava dal servizio senza avere lasciato in deposito al suo reparto in stazione a Ventimiglia (IM) il borsone regolamentare, ci faceva ammirare: scatolette di alluminio decisamente più grosse di quelle oggi correnti per contenere prodotti alimentari, per noi bambini affascinanti, al pari dei racconti di papà, relativi ai casi in cui aveva dovuto usarli o di cui avesse avuto notizia da parte di colleghi. Alla notizia di un tragico incidente ferroviario di qualche anno fa, dovuto alla nebbia, mi sono chiesto se in ferrovia avevano smesso di usare i petardi.
Weilbacher, Karl Weilbacher. Un cognome che suona un po' come la marca di un liquore di erbe. Se ne fece un breve cenno su questo blog l'anno scorso in proposito del suo coinvolgimento nel caso dell'importazione a Sanremo di un quadro del Tintoretto - in piena seconda guera mondiale! - per il quale dal medesimo - reputato agente dell'Abwehr tedesco - non era stata pagata la dogana. Per caso, qualche mese dopo un articolo, apparso nella cronaca locale di un noto quotidiano a larga diffusione nazionale, si dilungava con dovizia di particolari sulla citata vicenda. Probabile comune fonte di informazione per i due casi un lungo rapporto - datato 7 gennaio 1947 - del servizio segreto statunitense, firmato da James (Jesus) Angleton, un personaggio a suo tempo importante, come sottolinea anche il giornalista, e sul quale conviene a breve tornare. Occorre precisare che il documento è molto lungo, per cui non si può fare a meno di procedere per brevi, esemplificative estrapolazioni. Il cronista ha compiuto la scelta di concentrarsi sulla faccenda del dipinto, che risulta invero a suo modo interessante. L'opera consiste nel ritratto del Doge di Venezia Pietro Loredan. Secondo alcune fonti oggi si trova al Kimbell Art Museum di Firt Worth nel Texas. Per altre non è detto, perché il Tintoretto fece tre ritratti al Doge, tutti ancora esistentio. Si può menzionare la relazione americana: "Weilbacher andò a Imperia e pagò 22.000 lire di dogana per il dipinto, che gli fu restituito. Lo riportò a San Remo. Nell’autunno del 1943 il Weilbacher lo depositò in una banca a Merano. Fu restaurato nell'ottobre o nel novembre 1945 e portato nella sua nuova residenza a Como, da cui fu in seguito trasferito e consegnato a Milano in Via Dino Compagni n. 2 al Prof. Ivan Bernaim. Qui fu trovato e confiscato dopo l'arresto del Weilbacher." Perché Weilbacher, per l'importazione illegale del quadro per paradosso era stato in precedenza arrestato dal commissario di polizia della Città dei Fiori, invece che dalla Guardia di Finanza. Un dipinto che risultava essere di proprietà di Zaccarias Birtschansky il quale, dopo lunghi tentennamenti, si era lasciato convincere nella sua ultima residenza nel Principato di Monaco, egli vecchio profugo russo, passato anche per Parigi, ad affidare il suo prezioso bene per una tentata vendita in Italia proprio a Weilbacher ed al suo sodale Scholtz, vera mente del progetto e sul serio agente dell'Abwehr: e si è già potuto notare come è andata finire. La vita di Weilbacher - come emerge dal dossier - è stata se non avventurosa, sicuramente movimentata. Nato nel 1895 a Stoccarda, divenne ancora giovane in Tunisia segretario di un clinico inglese, specialista di malattie degli occhi. Lo seguì a Genova quando quest'ultimo vi aprì una struttura. Trasferitosi in Svizzera per conto suo, Weilbacher vi si trattenne per sottrarsi agli obblighi militari derivanti dalla Grande guerra nel frattempo scoppiata, ma ricevette ancora preziose sovvenzioni da quel suddito britannico. Finito il conflitto, si dedicò al suo nuovo impegno lavorativo, il commercio di generi alimentari, viaggiando per mezza Europa, compresa l'Italia, e rientrando anche in possesso del passaporto tedesco. "Nel 1919 incontra a Lugano Clara von Andrassy (nata Levi), moglie del conte Gyula von Andrassy. Clara divorzia e i due si sposano nel 1923 in Svizzera. Nel 1924 la coppia si trasferisce a Sanremo dove lavora come rappresentante di case editrici e gallerie d’arte austriache e tedesche. Nel gennaio 1925 apre una libreria a Sanremo che viene gestita dalla moglie. Aprirà poi delle succursali ad Alassio, Nervi e Viareggio. Nel 1928-29 subisce un tracollo finanziario e deve ottenere un concordato dai creditori. Nel 1930 apre un’agenzia internazionale in Via Vittorio Emanuele [n.d.r.: attuale Via Matteotti] a Sanremo, che si occupa di compravendita di immobili, riscossioni di affitti, gestioni immobiliari. L’attività frutta molto bene e Weilbacher ha rapporti anche a Mentone, Monte Carlo, Nizza e in Svizzera. Dopo l’ascesa al potere di Hitler, Weilbacher effettua numerosi viaggi verso la Germania, aiutando diversi ebrei ad espatriare. La sua principale attività era la vendita di immobili di ebrei ad ariani in Germania e il contemporaneo acquisto di altri immobili in Italia. L’attività era molto lucrosa ma ebbe un termine con l’introduzione delle leggi razziali in Italia nel 1938". In effetti, a Sanremo ci sono ancora persone che ricordano uno dei figli di Weilbacher, finita la seconda guerra, davanti alla porta di questa agenzia. Nel periodo bellico si facevano più intensi i contatti di Weilbacher con connazionali, agenti o militari che fossero, anche della S.D. e della Gestapo, ma la relazione Angleton non entra mai nei particolari. In genere si cercava di sfruttare la sua pregressa capacità, assodati i suoi trascorsi di immobiliarista, di muoversi ed avere contatti tra Marsiglia e Genova. Scholtz, ad esempio, lo incarica di prendere a nolo una nave danese nel porto della capitale della Provenza per una misteriosa operazione, poi lasciata cadere. Una frase che non riporta - come altre ! - la data dell'avvenimento suona nel seguente modo: "Weilbacher incontrò il console tedesco di Sanremo, una settimana dopo il suo arrivo in città, in occasione di uno spettacolo di varietà offerto per feriti italiani e tedeschi e al quale doveva partecipare anche il figlio di Weilbacher, Rolando". Indubbiamente Weilbacher non poteva non conoscere il console tedesco a Sanremo, Geibel, che anzi, involontariamente, gli procurò i primi contatti con la famiglia Scholtz, quando nel 1940 la signora Scholtz cercava nella cittadina della Riviera dei Fiori una villa da affittare. Senonché Geibel era di tutt'altra pasta, perché fu persona che cercò - certo con mille cautele - di aiutare connazionali (meglio dire ex) ebrei, tra i quali anche Dora Kellner, ex moglie di Walter Benjamin. Ironia della storia, a Weilbacher venne consigliato da un nazista di divorziare dalla moglie perché ebrea, il che egli puntualmente fece. Con tutto questo non è molto chiaro in cosa sia consistita l'attività spionistica di Weilbacher, tanto è vero che il rapporto statunitense si lascia anche sfuggire l'espressione "presunto agente dell'Abwehr". Ma è anche possibile che l'inquisitore (gli inquisitori) non fosse (fossero) riuscito (riusciti) a "stanare" l'indagato, il quale nel presente caso (ma in materia si può benissimo sospettare che a tali astuzie siano ricorsi tanti altri!) di sicuro raccontò sin nei minimi dettagli la sua vita, ma, con le sue divagazioni, probabilmente riuscì a celare, prendendo per stanchezza i suoi giudici, uan sua reale attività spionistica, se non dei veri e propri delitti commessi. Invero, nel documento si trovano frasi come: "Nell'ottobre 1943 gli fu chiesto di riferire al Consolato Generale Tedesco a Genova. A Genova fu ricevuto da una persona che aveva sostituito il Console Generale (di cui non ricorda il nome) che gli disse che doveva andare a Berlino e riferire al tenente colonnello Rosenleiter al comando generale dell'Abwehr. Gli fu dato un passaporto e un visto e partì subito dopo per Berlino, dove riferì al tenente colonnello Rosenleiter, che gli disse che gli era stato indicato come un agente dell'Abwehr [...] Dopo che il Weilbacher ebbe fornito le sue spiegazioni, Rosenleiter gli diede 200 marchi per le spese del viaggio e lo mandò nello Eden, dicendogli di tornare di nuovo il giorno successivo. Mentre stava tornando nell'ufficio di Rosenleiter, incontrò per caso Scholtz nell'ufficio della segretaria. Gli chiese perché non lo avesse aiutato quando in prigione. Scholtz si scusò dicendo che aveva avuto affari urgenti in Ungheria e Bulgaria. Scholtz disse che stava per partire per Parigi, e da lì sarebbe andato a Madrid, dove aveva lasciato la sua famiglia. Stava andando per motivi attinenti al suo lavoro di intelligence e si rifiutò di dare il suo indirizzo di Madrid. Gli promise che avrebbe fatto del suo meglio per farlo trasferire a Madrid, ma il suo trasferimento non ebbe mai luogo. Weilbacher aggiunge che non rivide più né Scholtz né la moglie [n.d.r.: che a Sanremo era anche stata sua amante]". Inoltre: "A Monte Carlo ebbe [Weilbacher] rapporti anche con Werner Vohringer, un tedesco che lavora per l’Abwehr. Era stato a Sanremo prima dello scoppio della guerra e lì era rimasto senza fare nulla. Weilbacher lo conobbe a Sanremo nel 1940 quando lavorava per un'azienda di esportazione di fiori con sede a Bordighera. Alla fine del 1943 lo incontrò nuovamente a Monte Carlo. A quel tempo Vohringer possedeva un'automobile lussuosa e viveva al Regina Hotel; confidò a Weilbacher che stava lavorando per Abwehr sotto un certo Kirsten a Sanremo. Weilbacher fece alcuni viaggi con lui da e per la Francia, ma negò di aver lavorato con lui per i servizi. Per quanto riguarda il lavoro di Vohringer, sapeva solamente che quando era a Monte Carlo si interessava ai francesi prigionieri nei campi italiani". Non aiuta neppure un vago accenno al fatto che "era stato in relazioni amichevoli" con il capitano Gino Punzi, che, anzi, in un'occasione lo aveva accompagnato in auto vicino a La Turbie in territorio che vedeva la presenza di partigiani francesi. Potrebbe trattarsi di una ricostruzione fatta a posteriori da Weilbacher o messa in qualche modo in bocca a Weilbacher, perché se all'epoca i nazisti avessero sospettato l'attività clandestina patriottica di Punzi, che figurava ancora ufficiale italiano di frontiera, avrebbero di sicuro proceduto all'arresto di un uomo che si apprestava, dopo aver già tessuto una rete antifascista, sia a combattere insieme ai maquisard che ad operare - una volta arrivate le truppe alleate sulla frontiera marittima tra Francia e Italia - come agente dell'Oss, prima di cadere in un mortale agguato dovuto al tradimento di un pescatore contrabbandiere di Ventimiglia. O ancora altre conoscenze di agenti nazisti (sempre genericamente indicati come tali dal dossier) e di loro mogli (soprattutto di queste!) compiute da Weilbacher o di sue ricerche di materiali speciali, se non addirittura di armi segrete: un lungo racconto dal vago sapore di fumetto. Ed Angleton? A limitarsi ad un breve abbozzo della sua attività, si può ricordare che come giovane capo della sezione di controspionaggio statunitense di stanza a Roma nel tardo autunno del 1944 inviò oltre le linee due agenti per prendere contatto con il principe Junio Valerio Borghese, comandante della Decima Mas, specializzata in crudeli rappresaglie contro i partigiani: da parte americana si trattava della verifica della possibilità di ingaggiare in funzione anticomunista - il che significava (va da sé) il ricorso ad ulteriori modalità illegali - alcuni ufficiali di quei reparti speciali della Repubblica di Salò, il che, terminato il conflitto, puntualmente avvenne. Questo spiega perché Angleton abbia evitato una prima volta l'arresto di Borghese trasferendolo in aereo a maggio 1945 dalla Lombardia a Roma e influendo - o facendo influire altre autorità del suo paese - sulla successiva mite condanna del Principe Nero. Trascurando la successiva strepitosa carriera di Angleton, che divenne capo del controspionaggio della CIA, si può ancora riferire che alcune fonti lo indicarono in seguito come vicino, molto vicino a Borghese in occasione del colpo di stato tentato da quest'ultimo a dicembre del 1970. Non solo. Sul finire della guerra aveva reclutato - tra gli altri ufficiali della Repubblica Sociale da lui ingaggiati - anche Licio Gelli, destinato a rilevare anni dopo il comando della loggia P2, messa in piedi con funzioni anticomuniste - secondo alcune fonti ufficiali - da un altro spione americano, Frank Gigliotti. Per quello che si legge nel rapporto dalle vicende di Weilbacher emergono, altresì, una galleria di diversi altri personaggi (anche un principe Colonna!) e una geografia di luoghi, che da sole meriterebbero puntuali resoconti di storia, sì, ma di storia minuta.
Arturo Viale ha infine localizzato il terreno in cui venne introdotta - come racconta nel suo "Punti Cardinali. Da capo Mortola a capo Sant'Ampelio" (Edizioni Zem, 2022) - "a Latte, frazione di Ventimiglia, la coltivazione industriale dei fiori, producendo rose e garofani". Spetta in modo evidente a lui rendere noto in dettaglio tale aspetto, eventualmente con un suo nuovo libro.
Nico Orengo si complimentò anni fa con Arturo Viale per il suo "Mezz'agosto" (del 1994). Nel biglietto di congratulazioni lo scrittore si soffermò sulla "giuggiola dai Tremayne. Non ho più trovato quell’albero. Ce n’è ancora uno a Latte, all’inizio della via Romana, prima del cavalcavia. Caro Viale, il suo raccontare mi ha tenuto una affettuosa e sincera compagnia per una sera, tempo fa. Ma il ricordo è ancora vivo, le parole hanno ancora alone". Si dà il caso che la citata pianta della Via Romana oggi non sia più visibile, perché attorniata da tanti altri alberi, ma quasi in compenso ci sono diverse piccole - larghe ciascuna più o meno un palmo - giuggiole sulla vecchia arteria, spuntate ai piedi del muraglione di sostegno della Via Aurelia.
Vladi Orengo, padre di Nico, fu anche un regista di documentari cinematografici. Nel 1955 gliene "bocciarono" alcuni. Tra questi, "Porta Canarda" (con un po' di fantasia anche sentinella di Latte in altura, da levante, in zona Ville), "inchiesta sul contrabbando in una zona nei pressi di Ventimiglia, al confine con la Francia. Le parole di protesta del regista, vittima di una vera e propria crociata da parte dei censori, erano le stesse di tutti coloro che credevano nel documentario e nella sua vocazione a trattare argomenti d’impegno civile, anche se scottanti. Contro quest’ambiziosa visione, però, si scontrava - e il più delle volte prevaleva - l’idea di chi relegava il documentario a sottoprodotto culturale, impedendogli di evolversi e di affermarsi autonomamente". Così recita un passo della Tesi di Dottorato di Mariangela Palmieri "La propagaganda della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista Italiano negli anni della guerra fredda attraverso i documentari cinematografici (Università degli Studi di Salerno, Anno accademico 2010-2011). Si aggiunge, per una migliore comprensione, che Vladi Orengo aveva affidato le sue critiche alla rivista «Cinema Nuovo» e che si può capire il senso dell'esclusione dal mercato delle menzionate pellicole ancora con il ricorso alle parole usate da Mariangela Palmieri: "tantissimi documentari d’indiscusso valore e pluripremiati in festival e rassegne sono stati costretti, praticamente, alla scomparsa definitiva dalla circolazione, poiché altre soluzioni di sopravvivenza, al di fuori dell’area del sostegno dello Stato, in Italia in quegli anni non ve n’erano".
Riaffiorano ancora, in questo lembo di ponente ligure, racconti di antiche vicende di pescatori contrabbandieri. Anche con la pronuncia di termini specifici, "fenicotteri", ad indicare le persone che si volevano trasportare via mare clandestinamente verso la Francia: vocaboli, nella storiografia e non solo, per lo più usati ad indicare i militanti comunisti che sotto il regime fascista facevano il percorso inverso, di ritorno in Italia, per ritessere contatti con la vecchia base, venendo quasi subito irrimediabilmente arrestati. Tornando ai pregressi avventurieri nostrani occorre aggiungere che a loro piaceva anche usare la parola "neri". Si tramanda che, sotto l'incombere del probabile intervento di poliziotti transalpini, talora venisse buttato a mare qualche passeggero. Che in rare occasioni questo accadesse per depredare le vittime. Non si sa, tuttavia, quanto di vero ci sia mai stato in questi racconti di frontiera.
Nello Pozzati mi disse in un’occasione che aveva letto "Meridiano di sangue" di Cormac McCarthy, come forse gli avevo suggerito io: solo che non so ripetere con la sua lucida precisione la trama con cui mi descrisse la filosofia, da lui intesa, sottesa a quel romanzo, che pur mi aveva tanto affascinato per quella che a me è sembrata una plastica commistione di paesaggi selvaggi e di crude vicende storiche poco note del sud-ovest nord-americano di circa due secoli fa. E non potevo dubitare che, quando conobbe Nico Orengo, autore anche de “La curva del Latte”, Nello gli rammentasse che, certo, anni dopo quell’ambientazione romanzesca, nella campagna condotta dal protagonista lui ci aveva lavorato da bracciante, prima di emigrare a Milano, diplomarsi, laurearsi e vincere importanti concorsi in comuni dell'hinterland. Nello, che in gioventù tirava tardi a discutere con Francesco Biamonti davanti al Bar Irene di Ventimiglia, esercizio ormai chiuso, mentre doveva alzarsi di lì a poche ore per tornare al suo lavoro, all’epoca, ancora agricolo, non ricordava, invece, molto del professor Raffaello Monti, già amico e corrispondente di Aldo Capitini. Eppure ai nostri vent’anni era stato lui a riferirmi citazioni di quella più vecchia Bordighera dell’Unione Culturale Democratica (tuttora operante grazie alla grande tenacia di Giorgio Loreti), che vide impegnati, tra gli altri, Francesco Biamonti, Guido Seborga, Angelo Oliva, Luciano De Giovanni, i pittori Enzo Maiolino, Sergio Biancheri, Joffre Truzzi, Sergio Gagliolo e chissà quanti altri personaggi di rilievo che io sto dimenticando.
Dalla lettura del significativo libro di Sergio Favretto, Partigiani del mare. Antifascismo e Resistenza sul confine ligure-francese, Edizioni SEB27, Torino, aprile 2022, vengo ad apprendere che Raffaello Monti era riuscito a frequentare, seppur brevemente, Giuseppe Porcheddu anche nell'immediato secondo dopoguerra.
Fravretto si sofferma pure sull'operato da partigiano di Pietro Giacometti, che compare anche nell'opera "Lina, partigiana e letterata, amica del giovane Calvino", scritto da Daniela Cassini e Sarah Clarke. Giacometti, il cui operato appare in diverse documentazioni storiche in modo frammentato, dunque, difficile da ricomporre, era il nonno del marito della signora Clarke. Senonché, a Sanremo, quando due anni fa venne presentato il citato libro, sono venuto a sapere che la famiglia Giacometti a cavallo della guerra abitava in Villa Olga a Nervia di Ventimiglia: a poche centinaia di metri dove, più a levante, qualche tempo dopo sono nato io, ma dove in quel periodo cruciale abitavano già i miei nonni.
Alcuni fatti storici o, al limite, solo alcune conferme, sono stati appurati (anzitutto per Giacometti) in ordine ai due libri appena accennati dalla pubblicazione di quello che io definisco il "Memoriale Porcheddu", prima inedito, in Francesco Mocci (con il contributo di Dario Canavese di Ventimiglia), Il capitano Gino Punzi, alpino e partigiano, Alzani Editore, Pinerolo (TO), 2019. Mi emoziona tuttora sapere che una radioricetrasmittente affidata da Punzi ad un altro degno antifascista, perché probabilmente destinata a Beppe Porcheddu, era transitata dal garage Chiappa, padre e figli, una volta esistente a pochi metri dalla mia attuale abitazione. O, ancora, avere appurato in modo incontrovertibile in quale casa di Marina San Giuseppe di Ventimiglia avvenne l'agguato vile e feroce che costò la vita al capitano Gino, un uomo, già ufficiale di carriera, venuto a morire dalle nostre parti dopo aver tentato di intessere una rete antifascista in provincia, aver combattuto con i partigiani francesi ed essere tornato a cercare contatti con i nostri partigiani anche nella veste di agente dell'Oss statunitense.
C'é un rapporto segreto inglese, redatto dal capitano G. K. Long, artista di guerra, in riferimento alla Missione Flap, condotta, con culmine nell'ottobre 1944, tra i Partigiani, nel Basso Piemonte, del comandante Mauri, e i Partigiani della I^ Zona Operativa Liguria. Il documento in questione era stato rintracciato a cura di Giuseppe "Mac" Fiorucci per la preparazione del suo Gruppo Sbarchi Vallecrosia, IsrecIm, 2007. Della Missione Flap scrisse anche il capitano Paul Morton, canadese, corrispondente di guerra, in Mission Inside, ma edito solo nel 1979 a Cuneo da L'Arciere, e soprattutto per le insistenze di partigiani piemontesi: il Toronto Star aveva pubblicato il 27 ottobre 1944 un solo articolo dei nove che Morton aveva preparato superando le censure degli uffici militari preposti e per giunta lo aveva già licenziato. Long non aveva solo stilato la suddetta relazione, ma aveva anche messo mano a dei disegni che avrebbero dovuto completare il lavoro del collega giornalista, ma questi, invero, vennero dopo tanti anni pubblicati solo nel citato Mission Inside.
Dal documento di Long si estrapolano nella presente occasione le seguenti frasi: "Alle 6 di sera del [giorno non precisato, ma dovrebbe essere stato il 7 ottobre 1944] partimmo per ROCCHETTA [Rocchetta Nervina (IM)] dove giungemmo dopo quattro ore di marcia. Ripartimmo di nuovo a mezzanotte con la guida PIERINO LOI che ci diresse attraverso la parte principale delle postazioni armate tedesche raggiungendo la periferia di VENTIMIGLIA dopo sei ore di marcia. Qui rimanemmo in un piccolo riparo dietro alla casa dei genitori della guida... Noi avevamo viaggiato da PIGNA in vestiti civili e siccome stava piovendo dalle 6 di sera quando dovemmo attraversare la città, potemmo indossare dei sacchi sulla testa nel modo in cui lo facevano i contadini, il che si aggiunse al nostro travestimento. Camminammo 2-3 chilometri lungo la strada principale che costeggia il fiume ROIA ed attraversammo il ponte nella città vecchia passando oltre le sentinelle tedesche senza sollevare il minimo sospetto ed andando alla casa del pescatore sulla spiaggia. Qui rimanemmo dalle 7 di sera fino a mezzanotte... A mezzanotte portammo la barca (lunga approssimativamente 14 piedi con quattro remi) per una strada e giù attraverso la spiaggia di ciottoli - l'unica area non minata - fino al mare. I pescatori ci portarono vogando, senza ulteriori incidenti, in 3 ore e mezza a Monte Carlo (MONACO) dove sbarcammo [quindi, approssimativamente alle ore 4 del 9 ottobre 1944, data in ogni caso indicata da Brooks Richards, Secret Flotillas, Vol. II: Clandestine Sea Operations in the Western Mediterranean, North Africa and the Adriatic, 1940-1944, Paperback, 2013] e ci arrendemmo alla guarnigione F.F.I. La mattina seguente guidammo fino a Nizza e facemmo rapporto al Maggiore H. GUNN delle Forze Speciali ... A Nizza informammo il Colonnello BLYTHE del quartier generale della task force della settima armata americana circa la squadra dei quattro prigionieri di guerra che ci avevano lasciato per TENDA. Fino a quel momento non era arrivata nessuna loro notizia attraverso le pattuglie americane in quell'area... I pescatori erano in grado di fornire informazioni preziose alla Sezione di Interpretazione Fotografica del quartier generale americano sulla Forza Tedesca, posizioni delle armi, campi minati, ecc. a VENTIMIGLIA. (Mr. Paul Morton ha i nomi e i documenti di questi due uomini che darà senza dubbio alla Rappresentativa delle Forze Speciali n.1 con P.W.B. a Roma). Questi uomini furono poi consegnati dal Maggiore GUNN al Capitano Jones, Esercito Americano a Nizza... PIERINO LOI, la guida procurata da LEO, mise su un'operazione straordinaria e non perse nemmeno una volta la pista durante le sei difficili ore di marcia da ROCCHETTA a VENTIMIGLIA... I pescatori sono sicuri che questo percorso (Ventimiglia - Monaco o Mentone) potrebbe essere usato con successo in entrambi i sensi. Essi affermano che si potrebbero evacuare da VENTIMIGLIA fino a venti persone alla volta se fosse disponibile un'imbarcazione più grande. Ciò vedemmo ed annotammo, e si può attestare che i pescatori condussero a termine il loro piano di evacuazione senza alcuna deviazione...".
In seguito il capitano Michael Lees, che era già stato prima della Flap responsabile di svariate imprese segrete, venne "dimenticato", ad usare un eufemismo, dalle autorità inglesi perché dopo il suo passaggio dal ponente ligure aveva comunque compiuto con efficacia ed eroismo, ricavandone gravi ferite (per la quinta volta!), la Missione “Tombola” (così in inglese!), sull’Appennino a sud di Reggio Emilia, un'azione che era all’ultimo stata… annullata dalle autorità superiori. Insomma, Lees aveva disobbedito agli ordini, perché, invece, aveva condotto l'attacco (che non si doveva più effettuare!) alla postazione tedesca insieme a partigiani garibaldini di quei luoghi, a uomini della Sas, e al maggiore Roy Farran, il quale per varie circostanze se la cavò in seguito con più onore di Lees, rimanendo, al contrario di Lees (congedato piuttosto frettolosamente!) in forza all’esercito. E non era neppure mancato, per quell’assalto notturno del 27 marzo 1945 al comando tedesco di Villa Rossi e Villa Calvi in Albinea (RE), l’accompagnamento di una cornamusa scozzese suonata da David Kirkpatrik, perché i nazisti intendessero bene che erano stati colpiti da militari, così da non compiere una delle loro tante efferate rappresaglie su civili innocenti.
L'episodio "SAS Italian Job" della serie televisiva "Secret War" della BBC (2011) era imperniato sulla Operazione “Tombola“. Su Rai Storia a giugno 2020 una trasmissione ha, inoltre, affrontato risvolti successivi degli accadimenti occorsi a Lees e a Farran (aspetti di cui si parla anche nel più recente "Malcolm Tudor, SAS in Italy 1943-1945: Raiders in Enemy Territory", Fonthill Media, 2018).
Un libro recente si sofferma anche sulla figura del capitano Gino Punzi: Giorgio Caudano (con Paolo Veziano), "Dietro le linee nemiche. La guerra delle spie al confine italo-francese 1944-1945" (Regione Liguria - Consiglio Regionale, IsrecIm, Fusta editore, 2024). Sul capitano Gino si era già applicato integralmente, invece, Francesco Mocci (marito di una nipote di Luigi Punzi) in "Il capitano Gino Punzi, alpino e partigiano" <(con il contributo di Dario Canavese di Ventimiglia), Alzani Editore, Pinerolo (TO), 2019>, per la cui stesura l'autore si è potuto avvalere di alcune ricerche e segnalazioni, per l'appunto, del mentovato Dario Canavese, tra le quali il memoriale dell'ex poliziotto repubblichino Antonio Panascì (che collaborava clandestinamente con antifascisti della provincia di Imperia), memoriale già pubblicato integralmente nei volumi III e V della Storia della Resistenza Imperiese di Francesco Biga e fondamentale per conoscere i movimenti ed alcuni contatti del capitano Gino da dicembre 1943 al momento della sua morte. Da parte mia, dopo l'uscita del libro di Mocci, venne la segnalazione a diversi ricercatori della vera paternità di un altro documento, quello di Giuseppe Porcheddu, che, sul tema specifico, certifica i rapporti tra Punzi e l'estensore: ne ha tenuto conto Sergio Favretto per il suo Partigiani del mare. Antifascismo e Resistenza sul confine ligure-francese (Seb27, Torino, 2022).
Mi preme allora riepilogare - può essere utile come se fosse una sorta di recensione - come pian piano ho conosciuto questo eroe della Resistenza.
Tutto cominciò quando pubblicai su di un mio vecchio blog qualche nota, desunta da alcune testimonianze di momenti della Resistenza comprese in "Gruppo Sbarchi Vallecrosia" (Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, 2007) del compianto Giuseppe "Mac" Fiorucci, in cui apparivano brevi riferimenti alla tragica morte del capitano Gino Punzi.
Dapprima mi chiese notizie un lontano cugino del capitano, che (desumo) ha messo in moto altri familiari per la stesura della menzionata, notevole biografia di Gino Punzi, molto ampia soprattutto per quanto cocerne gli anni della sua carriera militare. Indi mi contattò il nipote di un partigiano francese già operante a Peille, villaggio non lontano da Nizza, perché gli risultava in modo ufficiale che il capitano Gino aveva combatutto nel locale maquis. Poco dopo ancora un esponente del Gruppo Alpini a riposo mi annunciò che era stata appena rinvenuta, abbandonata in una discarica, la croce di marmo dedicata appena finita la guerra al capitano.
Non ho, come faccio tuttora, approfondito la combinazione dei succitati avvenimenti, ma penso che siano stati tutti utili a varie iniziative, non solo quelle sin qui citate, ma anche altre, come il riposizionamento, avvenuto alla presenza di familiari del capitano, della lapide in Sant'Antunin di Ventimiglia, sito simbolo del locale Gruppo Alpini.
Aggiungo con mie parole: il capitano Gino era stato insignito nel 1948 di medaglia d'argento al valore militare alla memoria con la seguente motivazione "Combattente in territorio oltre confine non si arrendeva ai tedeschi ed in impari lotta opponeva fiera resistenza mantenendo alto l’onore e il valore del soldato italiano. Benché ferito riusciva a sfuggire alla cattura e unitosi al movimento clandestino francese organizzava la partecipazione al “Maquis” di formazioni partigiane composte di connazionali in Francia. A Peille, Peiracava e alla Turbie si univa ad essi ed eseguiva ardite missioni per collegare e coordinare nella zona di frontiera ed in quella rivierasca l’azione dei partigiani francesi e italiani. Mentre rientrava alla base di ritorno da una missione particolarmente rischiosa, veniva proditoriamente colpito da un sicario prezzolato che lo finiva a colpi di scure. Cadeva nel compimento del dovere dopo aver riassunto nella sua opera le belle virtù come militare e partigiano d’Italia” - Alpi Marittime - Ventimiglia, 8 settembre 1943 - 6 gennaio 1945". La data dell'assassinio del capitano, tuttavia, dovrebbe essere quella del quattro gennaio 1945.
Ho rinvenuto in mie ricerche diverse volte brevi accenni alle iniziative di Punzi: ne ho talvolta riportato gli estremi in altri miei blog più mirati sulla storia, per lo più intrecciati a testimonianze di altri valorosi partigiani, per cui mi dispiace alquanto non riprendere in questa occasione tante fila di un discorso affascinante, benché complesso.
Sono rimasto, invero, affascinato dalla parabola di combattente per i valori della democrazia, della libertà e della lotta contro il nazi-fascismo del capitano Gino, venuto a morire nella mia città natale dalla lontana Acquafondata (FR), dove era nato nel 1917. Intrigante sarebbe anche appurare in quale veste alla fine del 1943 (gli Alleati erano ancora lontani da questo confine marittimo italo-francese) il Punzi iniziasse ad operare per la creazione di una rete clandestina di spionaggio e di azioni antifasciste. Una domanda che appare anche nel citato libro di Mocci.
📷 Andammo in quell'estate di 11 anni fa io e Nello a Roquebrune. Non intendo annoiare sottolineando aspetti di storia e di monumenti, pur notevoli. Mi preme rievocare un episodio. Entrati in un vicolo per iniziare un giro del paese, fermati da una domanda di una gentile signora anziana in vena di socializzare, venivamo intrattenuti da un sopraggiunto artista del legno (bravo, in verità), il quale sciorinava a modo suo le vicende del villaggio, ma senza sbagliare nulla - come poi ho verificato -, anzi, aggiungendo che Roquebrune era stata venduta ai Grimaldi direttamente dal Conte di Provenza. Particolare, quest'ultimo, non riportato neppure dal citato foglietto ufficiale. Il brav'uomo in questione ci aveva prima proclamato che i suoi nonni erano arrivati in zona da Umbertide, Umbria; al che mi sono sentito in obbligo morale di esternare a tutti che sapevo di una vecchia, forte emigrazione (che in qualche misura ho frequentato) da Città di Castello (sempre in Umbria, beninteso!) nel locale dipartimento delle Alpi Marittime.
Nel 1960, credo, ci recammo io, papà, fratellino e zio materno a vedere una partita di calcio del campionato di serie A francese, Monaco-Reims, nel vicino Principato, nel vecchio stadio a dimensione quasi familiare. Eravamo vicini ad una linea laterale prossima ad una porta, ma un gruppo di spettatori sulla nostra sinistra era ancora più affacciato di noi sul rettangolo (come si suol dire) di gioco. Anzi, ad un certo momento, si consentì agli stessi di avanzare ancora, sino a portarsi a ridosso del portiere: in questo movimento rivedo ancora la fulminea mossa di una signora a riprendersi trafelata il fiaschetto di vino scordato indietro per potersi poi finire beata il suo bel picnic nella nuova agognata posizione. Finita la partita, dobbiamo avere indugiato un po’ da qualche parte, perché altrimenti non mi spiego la scena seguente. Su due sedie malandate, davanti ad un baretto qualsiasi (come oggi a Montecarlo non ce ne sono più), lo zio riconobbe per primo un calciatore, io un attimo dopo il secondo. Si trattava rispettivamente di Kopa, migliore giocatore europeo del 1958, e di Fontaine, tuttora recordman con 13 reti (1958, in Svezia) di un singolo mondiale, quella volta con una gamba ingessata (e, quindi, non era sceso in campo, ma aveva accompagnato la squadra) come avevo già letto in uno dei miei prediletti giornalini dell’epoca: entrambi del Reims e nazionali (i galletti) di Francia, il primo oriundo polacco, il secondo a suo tempo esordiente in Marocco. Si avviò un’amabile conversazione tra adulti, di cui ora io ricordo solo i continui complimenti fatti anche in spagnolo (aveva appena finito di militare nel Real Madrid), rivolti da Kopa al mio fratellino. Ed alla morte di Kopa ho riscontrato dalla lettura dei giornali la grande umanità di questo oriundo polacco, partito dal lavoro in miniera per diventare il grande calciatore che in tanti ancora ricordano.
📷 Per un San Valentino, pochi anni fa, una libreria di Bordighera (IM), dove abito, ha esposto in vetrina una vignetta molto grande di Peynet, incorniciata con eleganza, quasi un quadro, ma forse si tratta davvero di un dipinto. In ogni caso non sono entrato per osservare da vicino e sincerarmene. Mi è tornata in mente la prima volta che ho visto dal vero un disegno originale del creatore dei famosi fidanzatini. Mi era capitato in un pubblico esercizio del centro della città delle palme, dove spesso lo zio materno, in quegli anni 1966 e 1967, dopo essere stati a vedere un film, mi portava, quasi sempre a fare una seconda cena di mezzanotte a base di succulente cozze, di sicuro ad ascoltare la conversazione di una sorta di gioventù dorata dell'epoca, ma in effetti composta da persone serie e simpatiche. Non ho più visto in quel locale quell'oggetto delle mie intenzioni. Forse la famiglia dei titolari ha preferito tenerselo in casa. In effetti Peynet - ma questo lo sapevo, soprattutto dalla lettura dei giornali - era assiduo del Salone Internazionale dell'Umorismo di Bordighera. Vinse, in effetti, la Palma d'Oro del 1952. Che per un motivo o per un altro neanche da ragazzo sono mai riuscito a visitare. Anche se in quei tempi ero particolarmente entusiasta proprio di Peynet. Solo un giro veloce una volta, da adulto, ma il discorso porterebbe troppo lontano... Anni dopo nella cantina di un conoscente a Dolceacqua (IM), in Val Nervia, potei ammirare, con mio grande stupore, un altro disegno di questo artista, in tal caso magistralmente realizzato sulla semplice intonacatura in calce di una parete del locale in cui mi trovavo! Il mio anfitrione mi disse che Peynet aveva ben apprezzato il suo vino, tipico della zona, il buon "Rossese di Dolceacqua", per l'appunto, un'eccellenza, che allora non aveva ancora ricevuto le attuali denominazioni di qualità. Trovo una volta di più molto simpatico Peynet!
Livio Berruti non sa neppure chi sia io, ma ... Ebbi la fortuna di stare al suo fianco, come attesta questa fotografia, su di un palco a Ventimiglia (IM) in occasione delle premiazioni di un lontano Agosto Medievale, manifestazione tipica della città di confine. Quella volta gli balbettai qualche confusa parola circa le emozioni che la sua figura mi ispirava sin da bambino. Come cercherò di precisare più avanti. Credo che in qualche caso si provino a pelle sensazioni giuste. La mia fugace conoscenza dell'ex grande atleta mi diede la sensazione di essere vicino a, come si diceva una volta dalle mie parti, un gran signore. Questa mia datata impressione mi è stata confermata - un po' come mi era già capitato dalla lettura dei giornali in occasione della morte di Kopa - da un'intervista a Berruti di 5 anni fa, cagionata, in occasione del compimento dei suoi 80 anni. Le sue parole - in tal caso, al di là dei risvolti tecnici, pure interessanti per me, delle sue pregresse imprese agonistiche - ai miei occhi fanno emergere il ritratto a tutto tondo di un uomo intelligente, spiritoso, pieno di vita, sensibile verso il prossimo. Lessi della vittoria di Berruti (sorvolo sul relativo primato mondiale uguagliato due volte e sugli successivi sviluppi della sua attività sportiva) nei 200 metri piani alle Olimpiadi di Roma del 1960 su di un giornale a disposizione dei clienti in un bar di Coldirodi, Frazione di Sanremo (IM). Avevo dieci anni. All'epoca in pratica mi interessava solo il ciclismo. Dovrei - vorrei - ripetere che erano altri tempi con altri mezzi - scarsi - di comunicazione, per cercare di inquadrare quel contesto sociale, ma non voglio allungare questo articolo. Circa l'atletica leggera probabilmente ricordavo solo in modo confuso nomi come Consolini e Zatopek, desunti dalla lettura del mio amato "Corriere dei Piccoli". Inopinatamente la notizia di quella medaglia d'oro mi galvanizzò. Presi a seguire Berruti, la sua ed altre connesse discipline, altri atleti. Mi aiutava alla bisogna anche il successivo arrivo di un televisore in casa nostra. Ma pure la mia ormai costante attenzione ai quotidiani che comprava mio padre. Celiando, potrei aggiungere che, per una breve - perché su troppe cose sono stato incostante - stagione, cercai di emulare Berruti, anche se, in quanto allievo, su più brevi (80 metri) e più lunghe (300 metri) distanze. In ogni caso devo ringraziare mia nonna materna e la zia più giovane, che nel settembre 1960 mi avevano portato su quell'altura che guarda sul mare per l'annuale ricorrenza del locale Santuario della Madonna Pellegrina.