(Gianluca Parisi). Iniziarono gli immigrati, per risparmiare. Una telefonata intercontinentale costa ancora oggi; quella su WhatsApp, su Signal, Telegram o altra app di messaggistica è gratuita, se hai una rete WiFi e/o una connessione dati stabile. In realtà i primi a offrire il servizio di telefonia furono quelli Messanger di Facebook, ma poi quando la società fondata da Mark Zuckerberg acquisì nel 2014 WhatsApp, il traffico telefonico si è trasferito quasi del tutto su questa piattaforma. Ciò è dovuto all’intuizione dei fondatori di legare il servizio al numero telefonico di rete mobile. Così molta gente iniziò a confondersi chiamando attraverso la rete WhatsApp al posto della rete mobile di telefonia cellulare. Poi accadde che più persone iniziarono a usare la connessione dati sempre tutto il giorno, probabilmente per ricevere le notifiche in tempo reale o per altre esigenze. La connessione dati disturba le telefonate normali, andrebbe staccata ogni volta. Negli ultimi tempi quasi tutti gli operatori di telefonia hanno attivato il VoLTE, la tecnologia che consente di effettuare chiamate audio sulla rete 4G/LTE. Il servizio garantisce una migliore qualità dell’audio e permette di navigare contemporaneamente in 4G/4G+/5G su internet o sulle app durante una chiamata. Ma intanto sempre più utenti si erano abituati a chiamare tramite WhatsApp molto più stabile; così di fatto si sono disabituati a chiamare attraverso la rete mobile del proprio operatore commerciale. Ma così facendo hanno concesso senza accorgersene il controllo di tutte le proprie comunicazioni al fondo americano che controlla META e che influenza le scelte politiche dei governi a livello globale. A dire il vero ci sono anche altre piattaforme come la russa Telegram o l’europea svizzera Threema, c'è SIGNAL; ma la stragrande maggioranza degli utenti italiani usa WhatsApp, confondendo una chiamata vocale su rete cellulare da quella effettuata con WhatsApp. A quanti di noi è capitato che un amico ci chiedesse il perché non abbiamo risposto a una sua chiamata? Oppure che ci guardasse basito se gli abbiamo risposto: “Guarda non mi hai telefonato, hai chiamato attraverso WhatsApp?!”. Intanto la piattaforma di Meta non fa nulla per evitare la confusione. Ancora oggi quando chiamiamo via WhatsApp, anche se dall’altra parte del telefono non è attiva l’app, al chiamante appare la dicitura “CHIAMATA IN CORSO” al posto del più giusto “NON È POSSIBILE CHIAMARE. Solo negli ultimi periodi se il telefono squilla realmente su WhatsApp dall’altra parte appare la dicitura “Il telefono sta squillando”; ma la confusione continua a regnare sovrana.
gianlucaparisi
Molti anni fa esistevano le audio cassette, sostituite negli anni dai CD e poi dai files. Erano usate prevalentemente per ascoltare la musica; gli studenti vi registravano le lezioni universitarie e mia madre la musica dei saggi scolastici. Sui bordi bassi di queste audiocassette c’erano dei piccoli fori appena rettangolari, se riempivi questi fori con una mollica di carta l’audiocassetta diventava registrabile. Le usavo per duplicare i giochi che da un 'datasette', così si chiamavano i lettori di audiocassette per computer, lanciavo sul VIC20 il computer dell'epoca collegato al monitor della TV. Era di un mio coetaneo e vicino di casa, regalatogli dai sui genitori per la promozione dalla quinta elementare alla prima media. Per il mio primo computer dovetti aspettare un anno in più, ufficialmente perché stava uscendo una versione successiva di questi computer, ufficiosamente perché in quel periodo avevamo tutti le case ‘sgarrupate’ dal terremoto e le priorità erano altre. In quei tempi erano usciti sul mercato i ‘mangiacassette' a due casse e con due lettori di cassette, uno per ascoltare e un altro per duplicare. Avevo notato che con questi dispositivi era possibile duplicare anche le cassette dei giochi per il computer. Quando premevi il tasto play da una parte e quello record dall'altra sentivi un audio stridulo, abbastanza fastidioso, somigliante vagamente al suono che avrebbero poi emesso i modem analogici che si collegavano a Internet nella seconda metà degli anni ‘90. Negli anni successivi tentai di imparare un po' di programmazione, usavo dei semplici comandi di Basic: print, goto, if, then. Mi divertivo a fare o modificare questionari che propinavo al parente di turno, dove alla fine delle domande la risposta prendeva sempre in giro il poveretto. Custodivo questi questionari registrandoli sulle audiocassette scolastiche di mia madre. La poverina si arrabbiava quando al posto della colonna sonora dei suoi saggi trovava quel miscuglio di suoni sopra descritti. La programmazione non era arte mia e così mi concentrai sui database. In pratica usavo queste audiocassette per scrivere dei promemoria, dei pensieri e pian piano dei diari del giorno, stupidaggini beninteso, del tipo che il 13 maggio del 1984 era una giornata ventosa e piovosa. Nascondevo queste note nelle righe dei comandi della programmazione perchè dei files txt ancora non si sapeva. Poi il commodorre64 andò a finire in una cantina, di quelle scavate sotto i cortili per reperire le pietre di tufo da costruzione, per ampliare le case intorno agli stessi cortili. Sono passati una 40ina d'anni da quei tempi e oggi il vecchio Commodorre è stato messo in vendita dai miei nipoti su Ebay, la base d'asta è di appena 83 euro. Ma prima venderlo, per provarlo, hanno lanciato un'audiocassetta con il vecchio questionario. Alla fine, invece del solito messaggio demenziale, è partito un racconto cadenzato 30 righe alla volta alla pressione della barra spaziatrice. Prossimamente su questo canale... #libri #racconti #informatica #commodorre64
Tra poco meno di due settimane si apre la scuola e apriamo questa giornata con un racconto che riguarda il mondo scolastico. I fatti narrati avvengono in Slovenia, ma nella realtà potrebbero essere accaduti anche in Italia. Buona lettura
#scuola
Dopo il dissolvimento dell’ex Jugoslavia Palamov dirigeva di fatto un istituto per giovani studenti ai confini con l’Italia. La Slovenia aveva investito nell’educazione delle nuove generazioni, futura classe politica del nuovo stato. Palamov era stato un maestro elementare, aveva fatto parte della vecchia nomenclatura comunista locale e fu chiamato a ricoprire quel ruolo per la sua esperienza nel settore scolastico. Gli allievi per frequentare l’istituto pagavano una retta, non molto esosa ma neanche spiccioli! Vi si iscrivevano sia figli di famiglie agiate e borghesi che di lavoratori, che a stento riuscivano ad arrivare alla fine del mese, con la speranza di vedere cambiata in meglio la situazione socio-economica dei propri figli. Altre famiglie, impegnate nella difficile corsa della vita, quando si accorgevano di trascurare l’educazione dei propri i figli, la demandavano ad altri.
Per molti anni le cose andarono benissimo, l’effetto della novità determinò un pienone di iscritti e soldi a volontà. Grazie alle sovvenzioni dello Stato, il costo del personale, le utenze per riscaldamento, energia elettrica ed acqua era completamente azzerato. Le rette servivano solo per il vitto e per qualche attività extra che si offriva ai ‘collegianti’. Lo Stato sloveno imponeva il pareggio di bilancio annuale, quindi eventuali utili non potevano essere accantonati e venivano spesi per il miglioramento e la manutenzione della struttura. Palamov da parte sua era un uomo pratico, risolveva sempre i problemi in un modo o nell’altro. Era un abile mediatore e affabile adulatore. Si faceva sempre ascoltare e trovava sempre una soluzione. Qualche fastidio arrivò all’inizio, dalle organizzazioni dei sindacati che accordandosi con i politici del nuovo Stato inserivano nei ruoli pubblici chiave propri uomini, che con fare da manutengoli alimentavano un certo malaffare. Nell’istituto questo malaffare si manifestava nel piazzare a lavorare nella struttura lavoratori pubblici demotivati dell’ex stato jugoslavo. Col passare degli anni le famiglie più povere, che si erano indebitate per pagare le rette con la speranza di vedere formati i propri figli come futuri attori del nuovo corso, si resero conto che il ruolo più alto al quale potessero aspirare i propri figli non poteva essere altro se non quello di comparsa. Gli iscritti iniziarono cosi’ a diminuire, nella struttura non si faceva più manutenzione, non si investiva e gli avanzi di bilancio in un modo o nell’altro finivano nelle tasche di dirigenti e fiancheggiatori.
Palamov se ne accorse e pensò il da farsi. Era entrata in vigore da poco nello Stato sloveno una legge che imponeva di effettuare i pagamenti verso la pubblica amministrazione solo ed esclusivamente attraverso una procedura digitale, comprese le rette degli allievi dell’istituto. Solo che la maggior parte delle famiglie dei giovani studenti era poco avvezza ad adoperare questi strumenti digitali. Lo era anche Palamov però…. Pensò di offrire un servizio alle famiglie. Offrì uno sportello il sabato mattina, quando i padri di famiglia non lavoravano. Questi recandosi allo sportello firmavano una delega a Palamov che in nome e per conto della famiglia si occupava di effettuare i pagamenti digitali della retta. “Io sottoscritto, padre dell’allievo, con la presente delego il signor Palamov ad effettuare il pagamento della retta in maniera digitale in nome e per conto del sottoscritto e consegno brevi manu la cifra di $”. Palamov la controfirmava e via alla prossima famiglia. Intanto l’istituto andava sempre piu’ in malora, il sovrintendente era diventato vecchio e non si occupava più di controllare, i dipendenti si accontentavano dello stipendio dello Stato e le cose andarono così ancora per diversi anni. Se qualcuno faceva notare che c’erano famiglie morose Palamov, in nome del vecchio comunista che era stato, replicava che bisognava garantire il diritto allo studio a tutti. Intanto, invece di effettuare i pagamenti in nome e per conto delle famiglie, se li metteva in tasca. Un giorno un genitore, lamentandosi del pessimo servizio offerto dall’istituto mise nero su bianco e scrisse al responsabile gerarchico del dipartimento di istruzione. Ne derivò un’indagine interna, fu richiamato il vecchio sovrintendente che nel frattempo era andato in pensione. Si croprì tutto! Se la cosa fosse giunta all’orecchio di un giornalista e all’opinione pubblica, sarebbe scoppiato uno scandalo bello e buono, di proporzioni medio-grandi. Si decise di lavare i panni sporchi in famiglia. Chiesero a Palamov di restituire il maltolto, furono fatte indagini patrimoniali sui suoi beni, sui suoi conti bancari, ma non uscì fuori un centesimo, se non debiti. Palamov aveva nascosto tutto per bene. A questo punto, invece di fare come si fa in un qualsiasi paese democratico e civile, cioè denunciare il tutto alla gendarmeria, il vecchio e il nuovo sovrintendente concordarono di sottoporre Palamov ad una visita medica. Questa sancì la sua inabilità al lavoro. Fu messo in pensione anticipata. Il posto di Palamov fu preso dal suo vice. Tutti i membri del consiglio di amministrazione dell’istituto furono promossi o propri familiari presi a lavorare nell’istituto. Lo Stato erogò un finanziamento straordinario per la manutenzione ordinaria e straordinaria della struttura e di nuovo tanti giovani tornarono ad iscriversi nell’istituto.
Palamov passò il resto della propria vita senza far nulla in un paesino della costa sul mar Adriatico. L’istituto è tutt’ora aperto.
I protagonisti raccontano in prima persona: si trovano a Trogir in Dalmazia che si pronuncia Troghir e i croati ci tengono a correggerti se sbagli. I due erano in viaggio per turismo, il giorno dopo avrebbero preso l’aereo all’aeroporto di Spalato poco distante.
Era l’ora del vespro, eravamo alla ricerca di un bassorilievo ellenico del III secolo rappresentante il Dio greco Kairos raffigurato nella ricerca dell’istante propizio, del tempo giusto. Sentimmo una campana di una chiesa suonare, forse per la messa. Raggiungemmo la chiesa. Fuori su un cartello vi era scritto l’orario di visita, a quell’ora terminato. Nel sagrato c’era la statua del martire Agostino Kazotic nato lì nel 1260 e morto in Italia a Lucera nel 1323. Si trattava di un convento.
Ricordavo di aver letto in una guida che Kairos si trovava in un monastero, proposi di entrare. Era invece la chiesa del convento di San Domenico, dove proprio in quel momento, a nostra insaputa, stava per iniziare un rito esorcista. Erano presenti una quarantina di persone che recitavano una sorta di litania, come quella che si dice dopo il rosario, che precede la celebrazione eucaristica. Ci sedemmo tra I banchi sbirciando per scrutare il bassorilievo. Non c’era, non si vedeva. Deve essere nel convento adiacente? Decidemmo di partecipare alla messa ed eventualmente al termine chiedere lumi sul bassorilievo. Ma improvvisamente sentii il ringhiare di un cane. “Caspita anche in chiesa portano questi cani!” pensai tra lo stupore e la meraviglia. Ma faccio presto ad accorgermi che ad emettere quel ringhiare era una donna, seduta sull’altra fila di banchi, tenuta per mano da altre due donne di cui una le assomigliava molto, probabilmente sua madre. Arrivò sull’altare un parroco, col vestito talare e un grosso crocifisso di legno in mano. La messa non iniziava ed il parroco recitò pure lui la litania incomprensibile perché recitata in croato, che tutti ripetevano. Il ringhiare della donna aumentava, emetteva dei gemiti con un timbro di voce che mai penseresti potesse essere emesso da un essere umano, tanto più da una donna. Si dimenava, veniva trattenuta con forza dai suoi accompagnatori. Sputava, batteva i piedi a terra, forse imprecava in croato, francese “muà, muà” diceva.
Il prete, imperterrito, continuava con la litania. Dopo qualche dubbio, mi capacitai che, per caso, eravamo finiti nel bel mezzo di un rito esorcista. “Ma vuoi vedere che si tratta di una setta? Oppure deviazioni della Chiesa, è capitato che dei sacerdoti esorcisti fossero stati arrestati in Italia. Poi mi rassicurai: “Non può essere, questa è una chiesa cattolica, siamo in pieno centro, sarà un esorcismo. Quanto può durare?”. Non sembrava il caso di andare via, non per la mia compagna che era già fuori. Aspettai, era passata mezz’ora dall’ingresso. Mentre pensavo altre persone iniziarono ad emettere dei gemiti, come fossero in agonia. Tutti erano seduti. La suggestione era tanta. Il mio battito cardiaco accelerò, sentivo le gocce di sudore che mi scendevano dietro la schiena. Sarei voluto uscire di corsa, come aveva fatto la mia compagna, ma era tardi. I fedeli interloquivano nel rituale dettato dal sacerdote ed io sembravo come quel bambino, seduto ai primi banchi alla messa domenicale di mezzogiorno, che non sa quando alzarsi e si guarda costantemente intorno. I gemiti, le urla, le lamentela della donna in particolare, si facevano sempre più frequenti. Il prete finì di recitare quella che a me sembrava una litania e la situazione si calmò. Scese dall’altare per riporre il crocifisso sulla testa dei fedeli, me compreso, appoggiando la mano sulla spalla a chi uno, chi due minuti, chi pochi secondi. Due persone salirono sull’altare e presero due bottiglie d’acqua da un litro e mezzo e andarono via. Altre persone avevano nei banchi delle bottigliette d’acqua più piccole sigillate con della plastica trasparente. Il prete proseguì il giro. Alcuni, quando avvicinava il crocifisso sulle proprie teste, iniziavano a rantolare, a lamentarsi. Il prete si intratteneva di più e bisbigliava qualcosa, forse preghiere. Così benedisse uno ad uno la maggior parte delle persone, ma non tutte: saltò la donna che più si dimenava e quelle che le stavano a fianco. Quando si avvicinò ad una giovane pure iniziò a dimenarsi battendo i piedi a terra con forza. Il prete tornò quindi sull’altare e iniziò una nuova preghiera. Tutti pregavano. Le urla intanto aumentavano. Sembravano imprecazioni in diverse lingue, sopratutto della donna che per prima aveva iniziato a ringhiare. Il prete alzò le mani per far pregare I fedeli con più vigore. Anche io iniziai a recitare qualche preghiera, ma mi venne strozzata la voce in gola da un urlo forte detto in italiano “ZITTO”. Era quella donna. Ce l’aveva con me? No col prete! O forse era italiana? Intanto continuò a imprecare in altre lingue a me sconosciute. Mi aveva zittito, tramortito e solo dopo un po’ ripresi a dire qualche preghiera. La donna si lamentava sempre e assieme a lei anche altre persone, tra cui la giovane che le stava dietro. Iniziò a battere vigorosamente i piedi a terra e a sputare. Tutti pregavano, il prete si rivolse direttamente alle due. Quella davanti sembrò calmarsi, ora era solo quella dietro che si dimenava, ma non più di tanto. Mi ricordai di una preghiera di famiglia, una preghiera di guarigione che una mia anziana parente usava per invocare l’intercessione di Gesù, di San Giovanni Battista e della Madonna per alleviare i dolori dei sofferenti. Iniziai a recitarla: “Noi buoni convertiti benediciamo il Signore. Con il vostro aiuto, Dio salvi me misera creatura, doni sempre a tutti noi ogni vigore e la salute del corpo. Per le sue sofferenze vada via il male furibondo, oppure lo patisca con gioia perché possiate provvedere alla sua salvezza eterna. Aiutatemi per mezzo dello spirito santo. Amen!”.
“BASTA!” urlò a questo punto più forte la donna che prima sembrava essersi calmata. Il prete iniziò quella che sembrava una filippica. Ripetei ancora la preghiera ma non riuscii mai a finirla per le urla, per la suggestione, per la confusione. Le due donne, ripresero a dimenarsi in maniera vigorosa, mi interrompevano sempre. Ad un ceto punto tutti i presenti congiunsero le mani al petto ed io con loro. Le urla diminuirono. La ragazza seduta dietro la donna che per prima si era dimenata, sembrò ritornare il sé, tentò di prendere la sua borsa caduta a terra. Si sentivano ancora flebili rantoli di agonia da più parti tra i partecipanti al rito. Allora il prete scese dall’altare con l’acquasantario a benedire tutti i fedeli uno ad uno. Solo la donna che per prima e più di tutte le altre si era dimenata, seppur sfinita, continuava nell’atteggiamento di sfida, di protesta. Diceva sempre “BASTA” pronunciato con arroganza con una forza che non ti aspetti da persona sfinita. Allora il prete tornò sull’altare: ancora tre, cinque minuti di preghiera, sempre la stessa litania. La cosa sembrava andare per le lunghe, la signora non era venuta in sé completamente e il sacerdote riuscì a fatica a impartirle la benedizione “Padre, Figlio e Spirito Santo”, salutò i fedeli con la mano e io andai via prima di tutti. #racconti #libri
Da giovane quando mia madre a telefono mi rassicurava che le cose andassero bene in famiglia, sempre alla fine le chiedevo: “E al paese che si dice?” Era un paese di emigrati e io ero uno di loro: emigrazione mordi e fuggi, oggi in posto domani in un altro, giusto per sopravvivere. Non eravamo obbligati a rimettere i soldi guadagnati al paese. Al paese si viveva ancora bene, grazie alle pensioni dei nonni e agli orti delle terre. Qualche volta toglievo il si che sta tra il che e il dice e la mia domanda diventava: “E o Paese che dice?”, come fosse una persona, un essere umano con proprie opinioni. Passarono gli anni, amici e parenti morivano, altri nascevano e o paese stava sempre là. ‘Lui’ era già morto in passato, ma era risorto; oggi stava morendo di nuovo, anche se mia madre si ostinava a rassicurare che ’o paese tutt’apposto! Aveva ragione. Il Paese era apposto, ma non lo erano gli abitanti che stavano morendo. Le persone si ammalavano sempre di più, il tumore era di casa in tutte le famiglie. I pozzi erano inquinati, c’erano sostanze tossiche e prima di capirlo, per anni si è continuato a utilizzarne l’acqua per innaffiare gli orti o per pulire l’insalata e bollire la pasta. Anche il Comune usava questi pozzi inquinati per l’acquedotto pubblico. Anche l’aria era inquinata: la sera la brezza di mare spingeva sotto le montagne, dove si trova il paese, un puzzo di plastica bruciata. Di notte se salivi la montagna e guardavi il mare si potevano scorgere, come fossero lucciole, i fuochi appiccati nelle campagne Siamo nella “Terra dei Fuochi”, il paese si chiama Calvi Risorta e nell’estate del 2015 vi è stata ritrovata la discarica di rifiuti tossici più grande d’Europa. Dissero e scrissero che era stata la Mafia, la Camorra: i mafiosi erano come quei ratti che nelle periferie di campagna infestano le baracche del paese. Qui, assieme agli attrezzi arrugginiti per l’orto, qualcuno tiene pure qualche gallina. Qualche ratto si spingeva anche a rompere le uova. Le esche, le trappole che mettevano i proprietari degli orti, erano come la Giustizia e le Forze dell’Ordine per le famiglie mafiose. Quando debellavi una famiglia di ratti, per qualche giorno non se ne vedevano in giro, ma poi tornavano più di prima. Questo perché altri ratti prendevano il loro posto, trovando terreno fertile. E la Mafia trova terreno fertile nella povertà e nella corruzione. Al Paese pian piano le case furono abbandonate all’incuria, non le comprò più nessuno, chi poté andò via, i giovani che emigravano aumentarono. I ratti dopo aver infestato le baracche, infestarono pure le case. I giovani si ammalavano e morivano insieme ai vecchi. La morte portò via anche le pensioni delle quali figli e nipoti traevano sostentamento. Così anno dopo anno, pian piano, ‘o Paese si tacitò e non disse più nulla. Morì! Risorgerà di nuovo?
Si, grazie per la puntualizzazione 👍